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CARCERAZIONE PREVENTIVA: È POSSIBILE LICENZIARE IL LAVORATORE?

Scritto il 16 Dicembre 2024

La carcerazione preventiva di un lavoratore può giustificare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo? La Corte di Cassazione ha risposto a questa domanda con la sentenza n. 26208 del 7 ottobre 2024. La questione riguarda la possibilità per il datore di lavoro di risolvere il rapporto in presenza di un'assenza prolungata del lavoratore dovuta a misure cautelari restrittive, come la carcerazione preventiva, che rende impossibile la prestazione lavorativa per un lungo periodo.

 

Antefatti del caso

Nel 2011, il lavoratore fu sottoposto a una misura cautelare di arresti domiciliari, successivamente convertita, dopo dieci mesi, in obbligo di firma quotidiano. Questa situazione comportò una sospensione del rapporto di lavoro, con impossibilità di fornire la prestazione lavorativa per circa un anno. Trascorso il termine di dodici mesi previsto dal contratto collettivo, che stabilisce la risoluzione automatica del rapporto di lavoro in caso di assenza continuativa non imputabile al lavoratore, l'azienda procedette con la risoluzione del rapporto.

Successivamente, l'azienda comunicava anche un licenziamento disciplinare per giusta causa, datato 17 novembre 2011, basato su comportamenti considerati incompatibili con la prosecuzione del rapporto lavorativo. Il lavoratore impugnava entrambi i provvedimenti presso il Tribunale di Napoli, che però rigettava i suoi ricorsi, ritenendo valida la clausola del contratto collettivo che sanciva la risoluzione del rapporto in caso di assenza prolungata non imputabile al lavoratore.

Il lungo iter giudiziario

La Corte d'Appello di Napoli, con la sentenza n. 3796/2015, aveva dichiarato improcedibile l'appello del lavoratore contro la sentenza del Tribunale. Tuttavia, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 20079/2018, ha accolto in parte il ricorso del lavoratore, precisando che l'improcedibilità dell'appello può essere dichiarata solo nei casi di inesistenza della notifica, e non per violazioni del termine previsto dall'art. 435, comma 3, del codice di procedura civile. Di conseguenza, la Cassazione ha annullato la sentenza della Corte d'Appello e rinviato il caso per un nuovo esame.

Riassunta la causa, la Corte d'Appello di Napoli, con sentenza n. 5901/2019, rigettava nuovamente l'appello del lavoratore, confermando la legittimità del licenziamento.

La posizione della Corte d'Appello di Napoli

Nella seconda sentenza, la Corte d'Appello di Napoli osservava che la risoluzione del rapporto di lavoro in data 22 settembre 2011 era avvenuta ai sensi dell'art. 34, comma 3, del CCNL Elettrici, il quale prevede la risoluzione automatica del rapporto dopo dodici mesi di assenza continuativa, anche se non imputabile al lavoratore. La Corte sottolineava che tale assenza era stata determinata dalla misura cautelare restrittiva, la quale aveva reso impossibile la prestazione lavorativa del dipendente.

Il licenziamento disciplinare successivo, invece, era stato giudicato privo di efficacia poiché intervenuto su un rapporto già cessato. Pertanto, non vi era più interesse ad agire in relazione al licenziamento disciplinare.

Il ricorso in Cassazione

Il lavoratore ha deciso di ricorrere alla Corte di Cassazione contro la decisione della Corte d'Appello di Napoli, presentando diverse motivazioni a supporto della sua richiesta. Tra queste, ha sostenuto che la clausola del contratto collettivo, che prevedeva la risoluzione automatica del contratto di lavoro in caso di assenza prolungata, fosse ingiusta e contraria alle norme vigenti. A suo avviso, il datore di lavoro, avendo scelto di procedere con un licenziamento disciplinare, aveva implicitamente rinunciato a far valere la clausola di risoluzione automatica.

Inoltre, il lavoratore ha contestato la legittimità della clausola stessa, sostenendo che essa fosse in contrasto con le norme sui licenziamenti e i principi di correttezza e buona fede. Ha anche ritenuto che l'assoluzione ottenuta in sede penale avrebbe dovuto essere considerata, poiché poteva avere un'influenza significativa sulla valutazione del suo caso.

La Corte di Cassazione, però, ha rigettato il ricorso. Secondo la Corte, la carcerazione preventiva, anche se non legata direttamente al lavoro, può giustificare la risoluzione del contratto da parte del datore se l'assenza del dipendente si protrae per un lungo periodo e non vi sono più ragioni valide per mantenere il rapporto di lavoro. La clausola del contratto collettivo che prevede la risoluzione automatica dopo dodici mesi di assenza continuativa è stata considerata legittima dalla Corte, in quanto bilancia sia l'interesse del lavoratore a conservare il posto di lavoro sia l'esigenza dell'azienda di mantenere una continuità operativa.

La Corte ha anche stabilito che le questioni sollevate dal lavoratore in merito alla valutazione delle prove non potevano essere riviste in sede di Cassazione, poiché riguardavano aspetti di merito già affrontati nei precedenti gradi di giudizio.

Conclusioni

Questa decisione evidenzia, ancora una volta, come la giurisprudenza sia orientata a tutelare sia il diritto del lavoratore alla conservazione del posto, sia l'interesse del datore di lavoro a garantire l'efficienza della propria organizzazione. La risoluzione del rapporto per impossibilità sopravvenuta della prestazione rimane uno strumento legittimo a disposizione del datore di lavoro, purché utilizzato in conformità alle previsioni del contratto collettivo e alle norme di legge vigenti.

Fonti normative e giurisprudenziali citate

- Sentenza Corte di Cassazione n. 26208 del 7 ottobre 2024

 

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